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  • Immagine del redattoreErica

Luci di un versante in ombra



Vi è mai capitato di frequentare per anni una località di villeggiatura e di ignorare una porzione di territorio ad essa prossimo, senza nessun apparente motivo, solo per una questione di mera abitudine?

A lungo, ho frequentato quel fianco della bassa Antigorio baciato dal sole, sul quale sono adagiate le frazioni di Mozzio, Viceno, e Cravegna. Nemmeno una fugace incursione al di là del Toce, dove la valle piega ripida alle pendici delle cime comprese tra il Monte Larone e il Pizzo del Forno.

È arrivato il momento di porre rimedio alla mia mancanza. Le prime esplorazioni, dato che ormai è autunno inoltrato, si limitano alla fascia più bassa del versante, raggiungendo nel punto più alto i prati della piana di Aleccio.


Partiamo da Maglioggio, piccola frazione di case in pietra. A monte dell’abitato ci saluta la Maria Bona, una signora di 400 anni che con la sua circonferenza di 8 metri e mezzo è annoverata tra gli alberi monumentali del Piemonte. Dal castagno secolare si intraprende la mulattiera che si infila nella valle del Rio Antolina per poi scavalcarlo nel punto in cui incrocia una delle tante carrarecce ad uso agro-silvo pastorale.


vista dal sentiero all'altezza di Salera

La salita continua per circa un’ora con una buona pendenza fino ai prati tra Cruppo e la Colla; volgendo lo sguardo a valle, si apre progressivamente la vista sulle cime innevate.

Qui incontriamo nuovamente la strada che fu costruita dal Consorzio dell’Alpe Aleccio a partire dagli anni ’70 per evitare l’abbandono dei pascoli, e che ha favorito più che altro il recupero e la costruzione di nuove baite ad uso di seconda casa. Ad esclusione di qualche bruttura di edificazione recente (per fortuna poche) la maggior parte di esse sono state restaurate in maniera mirabile.

Seguiamo la carrareccia che si snoda tra larici e abeti, dato che c’è mezzo metro di neve ed è più faticoso incedere sul sentiero soprastante senza le ciaspole.


neve alla piana di Aleccio

Ad Aloro il panorama sul versante opposto si manifesta in tutta la sua grandiosità: un unico colpo d’occhio dalla piana del Toce fino al Monte Cistella. Viene spontaneo immedesimarsi negli uomini che per primi si insediarono in questi luoghi e venerarono questa montagna come sacra. Circa i segni del loro passaggio tornerò più avanti nel racconto.


il Cistella tra le nuvole

Perdiamo leggermente quota nel bosco, fino a giungere all’Alpe Bee e alle sue baite curate. Qualche settimana prima incontro un signore che qui trascorre il suo tempo libero, tenendo in ordine l’alpeggio. La baita dove alloggia era della sua mamma, e prima ancora dei suoi avi. Assieme a lui una coppia di svizzeri sorseggia lentamente il caffè, riposandosi al ritorno da un trekking di più giorni tra Valle Cravariola e Isorno.

Sì, perché gli alpeggi come Bee o Aloro, erano solo delle tappe intermedie per spostarsi verso le vaste praterie oltre la Forcoletta. Grazie al loro racconto visualizzo il lago di Matogno e quei pascoli a lungo contesi con il Canton Ticino, attraversati da pastori e sfrusit (i contrabbandieri in gergo locale) con la schiena piegata dal peso della bricolla.


Alpe Bee in veste autunnale

Dal verde prato di Bee ormai imbiancato procediamo in discesa; a Boschetto il sentiero diventa mulattiera, e che mulattiera!


La Strà di vacch che collega Cagiogno con gli alpeggi soprastanti è una delle meglio conservate e più abilmente costruite dagli alpigiani. Fu realizzata all’inizio del ‘900, qualche decennio dopo che un console americano sancì l’appartenenza dell’ambitissima Val Cravariola al territorio italiano.


la Strà di Vacch, lungo la quale venivano fatte transitare le mucche dirette ai pascoli di alta montagna

Lungo il suo sviluppo si passa da diversi ambienti. Più in alto conifere, poi faggi e infine castagni fino a giungere a Cagiogno, dove si piega verso Sud in direzione di Crego.


Spuntiamo sulla strada asfaltata che conduce al paese, e si presenta un bivio: due sentieri a differenti altezze procedono paralleli alla piana di Verampio.


la centrale idroelettrica di Verampio costruita da Portaluppi

Optiamo per quello più basso che corre sulle condotte dell’Enel, dal quale si gode della veduta aerea sulla centrale idroelettrica sottostante. Dopo la vasca di carico di un seconda centrale si prende un sentiero nel bosco.


vasca di carico della centrale di Crego

Tra i saliscendi riconosco un affioramento roccioso che avevo memorizzato durante alcune ricerche in internet. Non si tratta di una falesia qualsiasi: se si supera un primo balzo, attraverso un passaggio su cengia si entra in un luogo magico dove sono ancora conservate delle pitture rupestri risalenti all’età del Bronzo, molto rare sulle Alpi.

Per questa volta dobbiamo accontentarci dell’immaginazione, non riusciamo a raggiungere il sito perché la roccia è altamente scivolosa per via delle abbondanti precipitazioni, e con la stanchezza rischieremmo di farci male.


Le pitture rimangono lì, in una danza statica che raffigura gli uomini oranti, intenti a dialogare con qualche divinità, sia essa l’acqua del fiume, una creatura del bosco o la mole rocciosa del Cistella, verso la quale protende la balma.


Duecento metri più in alto, pressapoco alla stessa latitudine, in località Arvenolo un altro manufatto testimonia il legame antico tra uomo e natura.


Muro del Diavolo

Si tratta di un imponente struttura megalitica realizzata con grandi blocchi di pietra che racchiudono su tre lati un terrazzamento, sul cui fronte è presente un portale. Antiche credenze popolari vogliono che questo muro fosse il basamento di un ponte costruito dal diavolo per collegare il luogo con la sponda opposta. Oggi sappiamo che la sua fondazione è avvenuta nel Neolitico e che con tutta probabilità era un luogo di culto. Come la Balma dei Cervi, anch’esso privilegia del panorama sulla valle e sulle cime antistanti.


panorama ad Arvenolo

Al Muro del Diavolo ho fatto conoscenza durante una precedente escursione con Marino (o perlomeno, questo è il nome che mi è stato indicato dal signore dell’alpe Bee) che lo è sia di nome che di fatto: occhi vivi e celesti dello stesso colore della sua tuta da lavoro, ormai lisa dal tempo. Marino è l’unico che si impegna a mantenere il prato attorno a questo monumento. Con lui parlo a lungo e mi tratterrei di più, ma ho paura di rubare tempo al suo lavoro. Mi racconta del muro, della sua nonna di origini Walser e mi svela anche l’esistenza di una foresta primaria, poco più in alto rispetto ad una località chiamata Pidei.

Guardo sulla carta, non è segnata, me ne dimentico. Mi accorgo solo ora, grazie ad altre ricerche, di esservi passata molto vicina nel giro che vi ho appena descritto, nel tratto iniziale lungo la valletta del Rio Antolina.


Ora che il cerchio si è chiuso e sono tornata al punto di partenza mi viene voglia di iniziare di nuovo, di ascoltare altre storie da Marino, di tornare alla balma e vedere le pitture, di scoprire la foresta incontaminata. Ma anche di spingermi oltre, verso gli altopiani selvaggi di Cravariola.

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